MAESTRO ALDO BORGONZONI

TESTIMONIANZE

«Il paese nella nebbia invernale lasciava intravedere il ritmo dei portici e i rari passanti bardati con nere capparelle, di fattura ottocentesca in disuso pochi anni dopo. Allora Medicina, uscita dalla guerra, non era dissimile per indigenza a quella disperata degli anni 20 di Aldo bambino....». Questa descrizione, dipinta con efficace sintesi da Giambattista, figlio di Aldo Borgonzoni, in occasione di uno dei tanti nostri incontri, mi è tornata alla mente accingendomi a scrivere queste presentazione.

Si parlava di Medicina, ma poteva essere Pieve di Cento. Pochi i chilometri che separano i due paesi... stessa la nebbia invernale, stessi i portici, stesse le nere capparelle.... Stessa anche l'indigenza, vissuta nelle nostre campagne quando, finita la guerra, gli uomini tornavano a lavorare nei campi e le donne, molte, andavano nelle risaie. Immagini tutte viste da Aldo con gli occhi della maturità (lui allora aveva passato da poco i trent'anni), da me viste con lo sguardo del bambino (vent'anni ci separano).

Oggi mi piace pensare che, adottando l'ormai antico uso di considerare per generazione l'arco di venticinque anni, questi vent'anni non ci dividono poi tanto: abbiamo vissuto una stessa guerra, uno stesso dopoguerra, gli stessi anni della ricostruzione, quelli del boom economico, poi quelli del dopo boom... la fine di un secolo, l'avvio del terzo millennio... Vite parallele, dunque, le nostre, trascorse nella stessa pianura, legata da tradizioni comuni che ancor più ci legano. Quasi ci siamo bagnati nelle stesse acque; sì, perché il «nostro territorio» è solcato dal Reno (Pieve) e da diversi torrenti e scoli (Medicina) che scendono a confluire nel Reno. Acque comuni che son state usate per la grande bonifica avviata sin dai tempi di Matilde di Canossa alla quale dobbiamo l'istituzione della «Partecipanza», tipica forma di radicamento nel territorio che si è configurata come un metodo di assegnazione delle terre per la coltivazione alle famiglie originarie del luogo.

A Pieve e a Medicina l'istituzione della «Partecipanza» ha avuto conseguenze straordinarie: una forte coscienza comunitaria, un'alta etica del lavoro, una sollecitazione a inventare e ad intraprendere oltre che un forte attaccamento alle nostre radici. Ecco, qui sta un altro legame con Aldo; entrambi, è innegabile, abbiamo una forte coscienza comunitaria, e lui l'ha dipinta per oltre mezzo secolo; entrambi abbiamo un'alta etica del lavoro, e la sua intensa biografia lo dimostra; entrambi siamo inventori, lui ha inventato dipinti, sculture, sassi io luci d'emergenza; entrambi siamo fortemente attaccati alle nostre radici, umili, che non rinneghiamo e di cui, anzi, siamo orgogliosi. Entrambi siamo stati sollecitati (sarà l'aria che si respira qui? il prodotto delle nostre risaie che è stato nostro cibo comune? saranno le cipolle di Medicina e le barbabietole di Pieve di Cento?) a fare, e a «fare bene», per le nostre comunità. E il nostro «fare bene» qui, oggi, si può toccare con mano.

Mi sono spesso pentito, in questi lunghi anni, di non aver registrato i miei colloqui - narrazioni sempre pervase da una profonda emozione - con Aldo e suo figlio, perché moli i sarebbero stati gli spunti per scrivere (non io) un'altra puntata delle vicende culturali di Bologna e non solo del nostro capoluogo. Giambattista, educato all'arte sin da bambino (era inevitabile), ha condiviso il cammino di suo padre, maestro d'arte e di vita. La prima immagine che li accomuna, nella memoria del figlio, risale all'autunno del '43 quando, fra le sue braccia e dall'alto del campanile di San Francesco, vide il devastante bombardamento alleato del frontone gotico della chiesa e della non lontana Via Roma (oggi via Marconi), durante il quale perirono centinaia di bolognesi.

Nel dopoguerra l'immagine del babbo «fisicamente emaciato, autodidatta avido di sapere, in ambienti apparentemente inconciliabili». Insieme in visita presso l'abitazione di Antonio Meluschi («scrittore e comandante partigiano... il sigaro tra le labbra e lo sguardo spavaldo alla Hemingway, di coloro che afferrano la vita con le mani...») ed alla sua compagna, Renata Viganò, autrice de L'Agnese va a morire. Durante le loro narrazioni, da me sempre sollecitate, mi hanno parlato di Mandelli, Ilario Rossi, Ciangottini, Minguzzi, Vedova, Pizzinato, Turcato, Monachesi e Renato Guttuso, «zio Renato» per il bimbo, in virtù del soggiorno romano della famiglia Borgonzoni e dei mesi del '49 trascorsi da Aldo nello studio di Guttuso.
Ascoltare le narrazioni sui tanti personaggi (Palmiro Togliatti, in visita ad una mostra bolognese sulla Resistenza, Guttuso, nello studio romano di Villa Massimo; Murer, nella sua baita di Falcade profumata di cirmolo scolpito; Migneco, nel pragmatico studio mi lanese; Morandi, nell'ottocentesca casa di Bologna), è stato per me come sfogliare un album fotografico e ulteriore prova dei tanti, innumerevoli fili con cui è intessuta la rete che mi lega a Borgonzoni. C'è anche una fotografia che ritrae il figlio nel '49, bambino stupito in sella ad un puledro vinto dal padre al Premio Suzzara col quadro Le mondine i n risaia. Quello stesso Premio Suzzara inventato e presieduto da Cesare Zavattini a cui nel maggio scorso il nostro Museo ha dedicato la mostra «Cesare Zavattini e la pittura» che ha avviato le celebrazioni per il centenario della sua nascita. Ma all'epoca io non avevo ancora incontrato Aldo Borgonzoni, a cui tuttavia mi legano molte cose sin prima di conoscerlo!

La nostra conoscenza risale ai primi anni Ottanta; all'inizio formale, essa si è trasformata ben presto in amicizia. Sicuramente per il mio interesse appassionato per la sua pittura, che ho cominciato a seguire assiduamente, visitando le sue mostre. Tra le tante ne rammento soprattutto tre, molto importanti, promosse e curate, anche negli allestimenti, dal figlio Giambattista tra il 1991 ed il 1995: «L'informazione: le maschere del potere», nel 1991 (occasione felice, questa, con cui iniziai a frequentare la sua casa); «Il Concilio Vaticano II» nel 1994, che, mi ricordo bene, celebrò i suoi ottant'anni; ed infine la mostra al faentino Palazzo del Podestà, nel 1995, incentrata sul «Naturalismo espressionista», che tanta emozione mi diede. Mostra, quest'ultima, che Borgonzoni dedicò a Domenico Rambelli, autore del Monumento a Francesco Baracca di Lugo e amico, sin dagli anni Trenta di Aldo, a cui fece un busto in gesso che durante un trasloco si infranse e si ridusse così da busto a ritratto. Del rapporto tra Rambelli e Borgonzoni, delle loro «vite simmetriche» il figlio di Aldo mi ha parlato spesso, narrandomi anche come «il rosso Borgonzoni», nel giugno del '45 salvò il «nero Rambelli» (fu infatti Accademico d'Italia ed esegeta del regime fascista), da un processo sommario così come già aveva fatto a Medicina, nel '44, per Virgilio Guidi.

Anche in questa vicenda sta la cifra di un uomo come Aldo Borgonzoni, maestro d'arte e di vita. E oggi, qui, su queste pagine, con quali parole posso esprimere l'emozione con cui lo accolgo nel nostro Museo? Come posso restituire ai visitatori di questa mostra il sentimento forte che si vive nel rendere omaggio ad un grande artista e grande amico? Come fargli capire quanto la nostra riconoscenza per la sua generosa donazione vada, per emozioni, ben oltre ad un sentimento di doverosa gratitudine?

Forse questa mostra è un passo significativo e importante attraverso cui manifestare ad Aldo tutto quello che non riusciamo ad esprimergli con le parole, non perché non le sappiamo ma perché non basterebbero. Forse questo è anche un ulteriore passaggio per giungere a realizzare quella tanto auspicata mostra di cui abbiamo spesso parlato e per cui Aldo si sentiva pronto: «Perché, con un adeguato supporto critico, la collaborazione degli enti territoriali, il Patrocinio dell'Università di Bologna e della stessa Comunità Europea - mi ha scritto Giambattista - non proporre un confronto internazionale fra alcuni grandi pittori del '900 che hanno raccontato il mondo arcaico? Come suggerii recentemente in ambito istituzionale, penso ad una mostra itinerante fra Italia e Belgio, di Aldo espressionista di tono europeo assieme al grande Constant Permeke, visionario maestro fiammingo narratore di possenti contadini, anche se fra i due è percepibile uno sfasamento generazionale e quindi il mio è un semplice suggerimento. Inoltre con un obiettivo non meno ambizioso si potrebbe promuovere l'antologica Aldo Borgonzoni nelle collezioni pubbliche e privale; l'iniziativa riserverebbe delle autentiche sorprese, permettendo di riscoprire non solo in Italia, quadri oggi dimenticati o non comparati con l'insieme della sua settantennale attività. Un'altra proposta potrebbe riguardare in parte il ciclo di opere Il Concilio Vaticano II, già profondamente studiato dal critico Adriano Baccilieri e oggetto nel '94 della grande mostra nell'Aula Magna dell'Università di Bologna».
Noi oggi, intanto, presentiamo questa «piccola» antologica, qual è, infatti la presente mostra che, con le sue 76 opere realizzate tra il 1943-45 ed il 1995, permette di ripercorrere cinquant'anni di lavoro di Borgonzoni: una produzione intrisa degli umori del luogo e dei tempi storici e personali in cui, ne sono certo, molti troveranno una memoria (i più anziani), o l'immagine di qualche cosa di cui hanno solo letto o sentito parlare (i più giovani).

Giulio Bargellini 2003

Museo d'arte delle generazioni italiane del '900 G. Bargellini Pieve di Cento


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